A cura del dott. Riccardo Melis, Psicologo Psicoterapeuta, in esclusiva per Well.
Nonostante le chiare raccomandazioni sulle norme igieniche e comportamentali da seguire per arrestare il diffondersi del coronavirus, continuiamo ad essere testimoni di violazioni al buon senso che aumentano i rischi di contagio per tutti. Sembra quasi che alcune persone ragionino in modo diverso dal normale. Ma a guardar bene…
Tra le pareti domestiche, ma anche nelle rare e motivate uscite che ci concediamo, siamo testimoni di cambiamenti sociali importanti che ci coinvolgono pienamente e che ci rimbalzano dagli schermi di cellulari, televisori e computer. Così ci può capitare di farci più domande su tutto, che di per sé non è un male, a partire dalle nostre abitudini e per finire con quelle degli altri, rispolverando alcune fondamentali questioni filosofiche: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Su dove andiamo di questi tempi è facile rispondere… magari ci viene più facile chiederci dove vorremmo andare! Ma chiaramente si intende qui non l’andare rispetto ai luoghi, ma rispetto agli obiettivi, che sarebbe anche una ricerca di senso generale mica male. Per questo ci saltano agli occhi le banalità, specie quelle temporalmente sospese, che prima erano scontate, e quindi invisibili. Per esempio come facciamo a decidere di fronte a un rischio. Non di fronte a un pericolo, si badi bene, ma di fronte a un rischio. Ora proviamo a tornare indietro.
Quando ci è stato detto che restare a casa sarebbe stato il modo sicuro di rallentare la diffusione del coronavirus e di sconfiggerlo, ci siamo adeguati. Certo, con apprensione e speranza, ma in fondo si trattava di una situazione d’emergenza comprensibile, ben documentata, preoccupante ma affrontabile. E poi il sacrificio sarebbe durato poco, no?, il tempo di lasciar passare quest’onda di contagi che ci ha travolti come uno tsunami. Tutto sommato noi ci siamo sentiti anche tutelati, non come quelli che lo tsunami vero del 2004 lo hanno subito sulle loro pelli, che non hanno avuto certo questo privilegio di chiudersi in casa per salvarsi, e dove hanno perso la vita 230.000 persone. Per non dire poi, se rimaniamo nel campo delle epidemie, di quelli che hanno conosciuto la terribile influenza “spagnola” del 1918-19, che spesso non hanno avuto altri strumenti di difesa se non il proprio sistema immunitario, solido per molti, insufficiente per molti altri. Basti pensare che in quell’occasione le vittime a livello mondiale, secondo le stime ufficiali, sono state tra i 50 e i 100 milioni, più delle vittime della prima guerra mondiale e all’incirca come le vittime della seconda.
Quindi, ci siamo detti, fare delle rinunce ne vale la pena. Abbiamo cioè preso una decisione che ci permette di ridurre il rischio di contagio, che è stata quella di seguire accuratamente le raccomandazioni istituzionali.
Oppure no. O almeno non tutti, o almeno non completamente. La cronaca quotidiana riporta infatti la notizia di violazioni alle restrizioni negli spostamenti per “futili motivi”, per ragioni che non sono contemplate dai DPCM che abbiamo imparato a conoscere. E di “assembramenti”, incontri e congiungimenti un tempo leciti e ora, improvvisamente, proibiti.
Molti di noi, di fronte a questa mancanza di buon senso, rimangono sorpresi ma non tanto per la presenza di minoranze inosservanti di per sé. La presenza di regole porta sempre ad avere trasgressioni, questo lo sanno tutti, ma in questo caso si tratta di una situazione straordinaria e pericolosa e la negligenza è avvertita come controproducente per gli autori e per tutta la società; e anche un po’ stupido. Che senso ha, ci si chiede, mettere a rischio la propria salute e quella degli altri per piccoli piaceri passeggeri, come incontrare amici, fare feste, passeggiare, andare da una casa all’altra, quando sono tutte cose che si possono rimandare a tempi migliori?
Credo che questa sia un’ottima occasione per utilizzare una curiosità, una necessità epistemica contingente, per capire meglio anche altri aspetti della nostra vita. Tanto per cominciare, la domanda sul perché molte persone non rispettino la restrizione ai contatti sociali, si riallaccia con la domanda generale su tutti i comportamenti in situazioni di rischio. Cosa ci porta a rischiare? A tentare di dare una risposta a questa domanda ci ha pensato tutta una corrente degli studi di psicologia che riguarda la percezione del rischio e la psicologia della scelta, nonché la tradizione degli studi di economia e finanza.
Gli studi in psicologia dell’emergenza distinguono il concetto di rischio da quello di pericolo (Sbattella e Tettamanzi, 2013). Per pericolo, infatti, si intende l’evento non controllabile che procura il danno, per esempio la tempesta che si avvicina ad una località di mare. Mentre il rischio riguarda la possibilità, o probabilità, di un danno che deriva da una decisione e azione umana, per esempio quella di ritardare il rientro a terra da parte del peschereccio che deve recuperare le reti, anche se avverte il crescente vento della tempesta in arrivo, valutando di avere i mezzi per sottrarsi in tempo al pericolo che forse non sarà tanto forte (Sbattella, 2009).
Così, quanto si parla di valutazione “oggettiva” di un rischio, si è in presenza di una percentuale, solitamente fornita da parte di autorità o organismi scientifici, che ci dice quante volte, in situazioni simili in passato, si è verificato un danno. Si parla invece di valutazione soggettiva o percezione del rischio riferendosi a quanto ognuno teme il verificarsi dell’evento dannoso.
Nel caso dell’attuale situazione d’emergenza dovuta al diffondersi del coronavirus Sars-Cov-2, il pericolo è da ricercare nello sviluppo della malattia Covid-19, con il danno che provoca alla salute dell’infettato, che può variare da una lieve sintomatologia simil influenzale per arrivare fino allo sviluppo di una polmonite dall’esito mortale. Il rischio invece è la possibilità di essere contagiati.
Quindi, per ottenere un comportamento prudente, non basta che il rischio venga definito dall’esterno, ma è necessario che ognuno percepisca il rischio. Infatti, non è qualcosa di concreto che si ha di fronte, non è il pericolo in sé, ma è una possibilità. Siamo cioè nel campo dell’incertezza, del pericolo probabile. E quando siamo disposti a correre un rischio? Fondamentalmente quando non ci importa delle conseguenze (il pericolo non mi spaventa) o quando riteniamo che il rischio sia basso (non capiterà a me).
Per l’importanza delle conseguenze bisogna fare riferimento al sistema di valori e di risorse personali. Per tornare all’esempio della tempesta, è chiaro che il rischio sarà avvertito come alto da un piccola barca a vela e meno importante per un grande peschereccio a motore, per il quale quella tempesta può magari essere affrontata senza danni. La stessa previsione del pericolo, quindi il rischio oggettivo, viene vissuto diversamente da chi ne è esposto secondo le sue caratteristiche.
Su come valutiamo la probabilità degli eventi, purtroppo, dobbiamo considerare che non siamo tanto razionali come crediamo. Siamo tutti vittime inconsapevoli di scorciatoie del ragionamento, meccanismi automatici del pensiero, o euristiche, che consentono di fare scelte “a lume di naso” e possono portarci a scelte non ottimali (D. Kahneman, 2011). Per inciso, le euristiche non sono di per sé negative, anzi consentono spesso risparmio di tempo ed energie, ottimizzando le scelte. Ma se questo è vero nel caso in cui si operi su conoscenze ben consolidate, è meno vero quando la ci si trova ad affrontare un argomento meno noto e in situazione di estrema incertezza.
Tra le scorciatoie mentali che possono indurci ad un azzardo eccessivo, ricordo qui l’euristica della disponibilità e l’euristica dell’affetto.
L’euristica della disponibilità è quel meccanismo cognitivo che fa apparire più frequente l’evento che è maggiormente presene in memoria. Siccome ci viene più facile ricordare le cose successe di recente oppure quelle che vediamo più spesso, è facile capire come questo tipo di meccanismo intervenga sulla percezione del rischio quando si comparano gli incidenti stradali con gli incidenti aerei. Benché, infatti, gli incidenti d’auto siano tristemente responsabili di un alto numero di vittime ogni anno, basta un solo aereo recentemente caduto per alterare in modo irrealistico la percezione del rischio da parte dei viaggiatori. Certo, in questo caso intervengono anche altri fattori ad alterare il giudizio, come l’irrealistica sensazione di controllo del viaggiatore quando si trova in auto rispetto a quando si trova all’interno di un aeroplano, ma la percezione del rischio come probabilità dell’evento può essere spiegata ampiamente con l’euristica della disponibilità.
L’euristica dell’affetto fa in modo che siano le simpatie e le antipatie a determinare le credenze sul mondo. È un meccanismo che incide sulla valutazione della pericolosità e utilità di un prodotto o un evento secondo il nostro gusto. Di fronte alla scelta siamo cioè portati a sottovalutare la possibilità di aspetti negativi se riteniamo che la scelta sia giusta di per sé. Ecco perché se proviamo simpatia per un particolare politico, le sue scelte ci sembreranno più utili, meno costose, più gestibili rispetto a quelle di un concorrente politico meno simpatico, senza che sia stata fatta una effettiva analisi dei costi e dei benefici in merito.
Questi sono solo alcuni aspetti che rendono conto della complessità che si nasconde dietro ad una scelta, apparentemente semplice. Se torniamo alla domanda iniziale, sul perché qualcuno vada contro il buon senso diffuso esponendosi ad un rischio per sé e per gli altri, ora possiamo avanzare dei tentativi di risposta che tengano conto della diversa percezione del rischio. Da una parte possiamo pensare che il rischio venga sottovalutato, grazie all’intervento di scorciatoie mentali automatiche, che intervengono spinte dalla propria storia di preferenze. Dall’altra, anche il sistema di valori e il peso che viene dato ai possibili danni deve essere preso in considerazione. E i due aspetti possono presentarsi insieme, rinforzandosi a vicenda. A volte l’unico vero rischio percepito è quello della sanzione, legale o sociale, mentre si slega il proprio comportamento dalla catena di legami che ci costituiscono come società.
Ma se vogliamo completare un tentativo di comprensione della scelta, dobbiamo tenere in mente anche il rischio che si corre con la scelta alternativa. Sin ora, infatti, abbiamo pensato che si possa sceglie di correre il rischio oppure no, cioè da una parte l’incertezza con la possibilità di danno e dall’altra la certezza, la sicurezza. Ma in realtà le scelte reali rappresentano spesso il dilemma tra diverse incertezze possibili. Che rischio si corre a stare a casa, specie per chi sta solo, quando siamo animali sociali che si nutrono del contatto con i simili? Oppure che rischio si corre, nei confronti di un particolare gruppo sociale, a mostrarsi diligenti, dove la disobbedienza è un elemento di riconoscimento? Quali valori vengono messi in gioco e come si costruisce l’immagine stessa del pericolo?
Se ci pensiamo bene, tutti noi, continuamente, ci assumiamo dei rischi che abbiamo sempre dato per scontati, salvo qualche barlume di coscienza presto sopito. Pensiamo alla nostra alimentazione, con tutti i danni alla salute, ben documentati, da parte di certi prodotti, come lo zucchero, le carni rosse, i fritti. Alle nostre abitudini sul bere e fumare. Pensiamo a quanto consumiamo e inquiniamo, nonostante gli allarmanti rapporti sul riscaldamento globale. A quanto siamo inclini alla sedentarietà così pericolosa per il nostro organismo. Si tratta, anche in questo caso, di nemici invisibili, di un rischio astratto, poco tangibile, che ha bisogno della nostra attenzione per essere percepito. Così come invisibile è anche il rischio del coronavirus, anche se ahimè con effetti già attualmente ben visibili. Siamo un po’ tutti come i furbetti del coronavirus, quelli che a me no e non è colpa mia, solo che abbiamo diversi riferimenti e accortezze, siamo più attenti all’immediato, sì, ma non certo al futuro prossimo. Ed è lì che stiamo andando, in risposta alle nostre domane esistenziali.
Riferimenti bibliografici
Sbattella F. (2009), Manuale di psicologia dell’emergenza, Franco Angeli, Milano
Sbattella F, Tettamanzi M. (2013), Fondamenti di psicologia dell’emergenza, Franco Angeli, Milano
Kahneman D. (2011), Thinking, Fast and Slow, tr. in italiano Pensieri lenti e veloci, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. (2012)
Slovic P. (2000), The Perception of Risk, Sterling (VA), EarthScan.